L’urlo muto di Joseph Mwepu Ilunga

Gelsenkirchen, 22 giugno 1974. Il tabellone luminoso del Parkstadion segna il minuto 85 di Zaire – Brasile: un’ultima, “disperata” chiamata per i Leopardi africani nella fase a gironi della Coppa del Mondo. Il Brasile, già forte di un rassicurante 3-0, si appresta a battere una punizione dal limite dell’area. Sul pallone, Rivelino, il cui sinistro è spesso in quegli anni una sentenza annunciata. Ma prima che il fischio dell’arbitro rompa la tensione, un’immagine destinata a diventare iconica – e per decenni dolorosamente fraintesa – si imprime nella storia del calcio e dell’umanità. Dalla barriera dello Zaire, come scagliato da una molla impazzita, si stacca un difensore, Joseph Mwepu Ilunga, che con un gesto tanto repentino quanto apparentemente insensato, calcia via il pallone con forza, spedendolo lontano, verso la tribuna.

Il mondo rise. I brasiliani in campo, per primi, che non trattennero lo sconcerto e poi l’ilarità. Il pubblico sugli spalti e l’opinione pubblica lo bollò subito come un folle, un ingenuo calciatore africano che non conosceva nemmeno le regole basilari del gioco. L’arbitro, il rumeno Nicolae Rainea, fu costretto quindi ad estrarre un inevitabile cartellino giallo.

Per quasi tre decenni, quel gesto sarebbe rimasto il simbolo dell’esotismo calcistico, dell’impreparazione di uno sconosciuto calciatore africano davanti ai colossi brasiliani e al calcio mondiale.

Ma dietro quella corsa disperata e quel calcio “al contrario” si celava un dramma ben più profondo, intriso di paura, oppressione e della disperata volontà di sopravvivere all’ombra di uno dei dittatori più spietati e megalomani d’Africa: Mobutu Sese Seko.

L’Ascesa dei Leopardi e l’Ambizione di un Dittatore

Lo Zaire, l’odierna Repubblica Democratica del Congo, si era qualificato per la Coppa del Mondo del 1974 in Germania Ovest contro ogni pronostico. Era la prima nazione dell’Africa sub-sahariana a raggiungere un simile traguardo: un’impresa destinata a rimanere nella storia dello sport. Dietro questo successo sportivo, però, si muoveva l’astuta mano di Mobutu. Salito al potere con un colpo di stato nel 1965, Mobutu aveva instaurato un regime cleptocratico, caratterizzato da un culto della personalità sfrenato e da una brutale repressione di ogni dissenso. Aveva ribattezzato il paese “Zaire”, introdotto l'”Autenticità Zairese” – una politica culturale che mirava a sradicare le influenze coloniali (e che spesso si traduceva in bizzarre imposizioni, come l’obbligo per i cittadini di abbandonare i nomi cristiani per quelli africani) – e accumulato ricchezze smisurate mentre il suo popolo sprofondava nella miseria.

Mobutu, come molti dittatori, comprese rapidamente il potenziale propagandistico del calcio. I Leopardi divennero il suo fiore all’occhiello, uno strumento per proiettare un’immagine di uno Zaire forte, moderno e vincente sulla scena internazionale.

Prima della spedizione tedesca, infatti, i giocatori furono viziati e ricoperti di regali – case, automobili, bonus in denaro – e accolti come eroi nazionali. Lo stesso Mobutu promise loro ulteriori, laute ricompense in caso di buone prestazioni al Mondiale. Si narra che il dittatore, noto per la sua passione per il lusso e gli eccessi (possedeva palazzi sfarzosi in Europa, una flotta di Mercedes e amava sorvolare la capitale Kinshasa su un Concorde), vedesse nella squadra un riflesso del suo stesso potere. La nazionale era allenata dallo jugoslavo Blagoje Vidinić, che aveva guidato il Marocco ai Mondiali del 1970, e la rosa includeva talenti come il capitano Ricky Mavuba (padre di Rio Mavuba, futuro nazionale francese) e il prolifico attaccante Mulamba Ndaye.

Dall’Euforia all’Incubo Tedesco

L’entusiasmo iniziale, tuttavia, si scontrò duramente con la realtà. La prima partita contro la Scozia, persa 2-0, fu una delusione, ma nulla in confronto a ciò che sarebbe accaduto dopo. Il 18 giugno, contro la Jugoslavia, lo Zaire subì una delle sconfitte più umilianti nella storia dei Mondiali: un pesantissimo 9-0.

Sconfitta che fu uno schiaffo intollerabile per l’ego smisurato di Mobutu. L’immagine di potenza e invincibilità che aveva cercato di costruire andava con quell’umiliazione in frantumi. Le promesse di ricompense svanirono, sostituite da un silenzio glaciale e poi da minacce. Le guardie presidenziali, che accompagnavano la squadra, fecero capire ai giocatori che Mobutu non era affatto contento, per usare un eufemismo. E prima della terza ed ultima partita del girone contro il Brasile, fu recapitato un messaggio agghiacciante, diretto, inequivocabile: “Se perdete con più di tre gol di scarto, nessuno di voi farà ritorno a casa”.

L’urlo muto di Mwepu Ilunga

È con questo macigno sul cuore e la morte negli occhi che i Leopardi scesero in campo contro i campioni del mondo in carica del Brasile. La Seleção verdeoro di Jairzinho e Rivelino era un avversario formidabile. Nonostante la paura palpabile, i giocatori dello Zaire lottarono comunque con orgoglio, cercando di contenere la marea brasileira. Ma la superiorità tecnica degli avversari era troppo evidente. Jairzinho aprì le marcature, seguito da Rivelino. Poi, Valdomiro siglò il 3-0. Si arrivò così, non senza patemi, agli ultimi cinque minuti finali con i “tre gol di scarto”, il limite imposto dal terrore. E quando Rivelino “il cecchino” si preparava in quei minuti a battere una punizione dai venti metri, nella mente di Joseph Mwepu Ilunga, difensore roccioso del Mazembe, si scatenò il panico. Così via dalla barriera per dare un bel calcio al pallone. Ma no, non era un atto di ignoranza calcistica, né un raptus di follia. Era un gesto disperato, un tentativo di fermare il tempo, di evitare un quarto gol che avrebbe significato, per lui e per i suoi compagni, conseguenze inimmaginabili.

“La verità è che fui preso dal panico. – Ha raccontato anni dopo. – Eravamo già sul 3-0, non potevamo prendere più gol, dovevo fare qualcosa. I brasiliani ridevano, gli spettatori fischiavano. Non potevano capire cosa stessi provando in quel momento, la pressione terribile che ci opprimeva”.

Un gesto da pagare a caro prezzo

Calciò via il pallone, forte, probabilmente con la speranza di spezzare la concentrazione dei brasiliani o di perdere comunque secondi preziosi. O forse, semplicemente, il suo corpo reagì prima della sua mente, spinto da un istinto di sopravvivenza.

L’arbitro lo ammonì, come da regolamento, ma di lì a poco gli attacchi dei brasiliani calarono effettivamente di intensità.

La partita terminerà quindi 3-0: i Leopardi erano riusciti a rispettare, seppur sul filo del rasoio, l’ultimatum del dittatore.

Solo che il prezzo da pagare per Ilunga fu alto: con quel gesto era diventato a tutti gli effetti lo zimbello del calcio mondiale. Aziende realizzarono magliette con il suo volto e la scritta “Io non conosco le regole”. I media di tutto il mondo ironizzarono per giorni su quel “calciatore che non sapeva cosa fosse una punizione”. L’essere umano sa essere davvero spietato in questi casi.

Ventotto anni di silenzio 

Per ventotto lunghi anni, Mwepu Ilunga e i suoi compagni portarono dentro di sé il peso di quella verità taciuta. Tornati nello Zaire, non ci furono parate trionfali, né le ricompense promesse. Anzi, molti di loro caddero nell’oblio e in condizioni di povertà, mentre Mobutu continuava a governare con pugno di ferro, fino alla sua caduta nel 1997. Ilunga continuò a giocare per qualche anno per il Mazembe, ma l’ombra di Gelsenkirchen lo perseguitò per decenni.

Fu solo nel 2002, in un’intervista rilasciata a un documentario della BBC intitolato “The Tragic Story of Zaire’s World Cup Leopards” e poi ripresa da altre testate di tutto il mondo, che trovò finalmente il coraggio di raccontare la sua versione dei fatti, squarciando il velo di omertà e ridicolo che aveva avvolto quel gesto per quasi trent’anni.

Mobutu ci aveva minacciato” confessò con voce rotta dall’emozione. “Aveva detto che se avessimo perso con più di tre gol di scarto contro il Brasile, non saremmo potuti tornare a casa. Eravamo terrorizzati. Quando vidi Rivelino pronto a tirare, e noi eravamo già sotto 3-0, il panico si impossessò di me. Calciai via il pallone d’istinto. Volevo solo salvare me stesso e i miei compagni”.

Le sue parole gettarono una luce completamente diversa su quell’episodio. Non più l’ignoranza, ma la paura. Non più la follia, ma la disperazione di un uomo che temeva per la propria vita e per quella dei suoi amici. Il mondo, finalmente, cominciò a capire.

L’Eredità

Negli ultimi anni della sua vita, Joseph Mwepu Ilunga non era più il calciatore africano che non conosceva le regole. La sua storia era diventata un simbolo della brutalità dei regimi dittatoriali e della dignità umana calpestata, ma anche della resilienza e del coraggio silenzioso.
Quel calcio “al contrario” non era più solo una bizzarra nota a piè di pagina negli annali della Coppa del Mondo, ma un grido muto contro l’oppressione, un gesto estremo di un uomo spaventato.

Ci ha lasciati nel maggio di dieci anni fa, fortunatamente dopo che la sua memoria aveva finalmente trovato giustizia. Non più relegata al triste e squallido cliché del calciatore africano lontano dal mondo occidentale che ignora le regole del gioco. Ma al ritratto indelebile di un uomo spaventato, un uomo che desiderava semplicemente vivere con dignità.

Luigi Potacqui
Ho creato Romanzo Calcistico. Ho scritto per Sonzogno "La magia del numero 10", perché il 10 è davvero un numero magico. Poi, non contento, ho scritto “Settimo Cielo”, il romanzo dei numeri 7. Perché nel vedere giocare Garrincha, Meroni o George Best, per arrivare fino ai giorni nostri con CR7, non puoi che sentirti in paradiso.
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