Non si parla mai di Mario Mandzukic

Il croato è stato uno degli attaccanti più sottovalutati del calcio moderno

È più forte di me. Quando sento pronunciare il nome di un calciatore, una serie di sliding doors mi passa per la mente senza darmi tregua. Uno, due, tre flash bloccati da anni nel mio ippocampo che riemergono in una frazione di secondo. Sì, mi rendo conto sia sintomo comune di noi malati di calcio, ma sono convinto si manifesti solo per i giocatori che abbiamo amato di più.

Nel caso di Mario Mandzukic, sono tre i top moments (come reciterebbero i migliori titoli clickbait di youtube) che emergono tra un coacervo di immagini: il tap in a porta sguarnita contro il Borussia Dortmund nella finale di Champions League vinta con il Bayern Monaco, l’indimenticabile gol in rovesciata contro il Real Madrid con la maglia bianconera, e quella pressione vincente su Lloris nell’ultimo atto dei mondiali con la sua Croazia.

Tre sigilli, tre finali, tre fotografie di un centravanti di cui -a mio modesto avviso- si parla sempre troppo poco.

 

Crescita

La gavetta calcistica di Mario non può che iniziare nella sua Croazia. Concluse le giovanili con il Marsonia, prima è la NK Zagabria ad acquistarlo, poi, la blasonata Dinamo Zagabria.

In appena tre anni tra i grandi, è il club più titolato del Paese a volerlo tra le sue fila. Pressione? Non per lui.

Segna sempre: 11 le reti in campionato con la NK Zagabria quando era poco più di un ragazzino, 42 in 81 partite con la Dinamo, con annesso titolo di capocannoniere vinto nella stagione 2008-2009 (da aggiungere ai tre scudetti, le quattro supercoppe e le due coppe di Croazia vinte con il collettivo).

Una tendenza, che presto l’avrebbe accompagnato anche nei campionati più importanti del vecchio continente.

A partire dalla Bundesliga.

 

Consacrazione

È la Germania – Paese che da bambino l’aveva accolto per quattro anni dopo la scelta della famiglia di trasferirsi a causa della guerra d’indipendenza croata allora in atto – la terra che segna la sua consacrazione.

Mette in mostra tutto il suo potenziale con il Wolfsburg, poi, è il Bayern Monaco a bussare alla sua porta.

Alla corte dei bavaresi vince tutto da protagonista assoluto, spalleggiato in attacco da compagni di reparto come Arjen Robben e Franck Ribery. Non solo segna tanto, ma in due stagioni a Monaco si dimostra sempre decisivo. Dai pesanti sigilli in campionato (sarà il capocannoniere della squadra in Bundesliga entrambi gli anni), sino all’esplosione di gioia per aver aperto le danze nella finale di Champions League tutta tedesca di Wembley contro il Borussia Dortmund.

A interrompere una storia di amore che si prospettava longeva, però, le incomprensioni con Pep Guardiola. Nulla di personale- non fraintendetemi- ma al secondo anno in Germania il diktat del tecnico spagnolo sembra chiaro: serve un centravanti più di raccordo.

Riassunto: dentro Lewandowski, fuori Mandzukic.

 

Un nuovo inizio

Ad accoglierlo nel 2014 è l’Atletico Madrid. Tante aspettative, ma un feeling con Simeone che non scatta del tutto. Certo, il croato non lesina prestazioni importanti, ma non riesce mai ad accendersi a causa dei tanti problemi fisici.

Risultato? Dopo solo una stagione lascia la Spagna.

Ad attenderlo, c’è la Vecchia Signora guidata da Massimiliano Allegri.

Un grande amore

L’estate del 2015 in casa Juve è sinonimo di rivoluzione. Da settimane, infatti, dalle parti di Vinovo c’è da risolvere un rebus: quello legato al nuovo reparto d’attacco. Ufficializzato l’addio di Carlos Tevez, i nomi sondati dalla dirigenza sono a iosa.

L’obiettivo della società è chiaro: si cerca un mix di esperienza e gioventù.

La coppia Mandzukic-Dybala, neanche a dirlo, è il connubio perfetto.

“Mario è andato a sostituire Tevez. In quella stagione ci serviva un giocatore caratteriale oltre che tecnico, ma Mario è un giocatore tecnico, un giocatore di livello talmente alto che faceva paura quando lo mettevi in campo. Quando lo mettevo che non aveva voglia, io lo lasciavo dentro perchè si accendeva nei momenti decisivi. Per quanto mi riguarda quando un allenatore ha modo di lavorare con questi campioni c’è sempre da imparare qualcosa” dirà in un’intervista Allegri

Sì, perché al di là della sua qualità il croato ha sempre dato l’impressione di spostare. E non poco.

Lo dicono i numeri che lo vedono tra gli insostituibili dello scacchiere del livornese, lo dice l’impressionante continuità di rendimento al di là della posizione in campo. Un anno da centravanti, due da esterno sinistro nel 4-2-3-1, e l’ultimo a comporre uno spaventoso tandem d’attacco con Cristiano Ronaldo.

A fare da filo conduttore con il popolo bianconero, però, il suo carattere. Quella resilienza da fame di vittoria che l’ha contraddistinto per tutta la carriera rendendolo- citando l’iconico striscione dedicatogli dalla Curva Sud –  guerriero tra gli uomini.

Una corazza, che si è portato dietro anche nelle ultime tappe della sua carriera. Dai sei mesi con Sarri, passando per l’esperienza all’Al-Duhail, sino all’ultimo anno con il Milan.

Mai una parola fuori posto, massima disponibilità e la scelta (tutt’altro che banale) di rinunciare allo stipendio di marzo nell’annata rossonera viste le assenze per infortunio.

Perché come direbbe Totò nei panni del barone Ottone Spinelli degli Ulivi: “Signori si nasce”.

 

Pietro Caneva
Mi sono occupato dell'intera stesura di "Domenica alle 15. Il calcio al tempo dei social" di Luca Diddi (ex Match Analyst dell'Hellas Verona e CEO di Calciatoriignoranti)

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