“Gli eroi non muoiono, dicevano gli antichi. Vengono rapiti in cielo al culmine della loro gloria. Marco Van Basten è fortunatamente vivo e vegeto, però qualcosa muore. La carriera di uno dei più grandi giocatori di ogni tempo è finita. Troppo presto. Qualcosa che si avvicina alla prematura scomparsa agonistica di Maradona. Sotto di loro uno strapiombo e infine la spianata dove giocano i più bravi fra i comuni mortali.”
La Gazzetta dello Sport – 18 agosto 1995
La sua parabola è stata sì breve, ma così intensa e vincente da renderlo immortale.
A 28 anni e 7 mesi Marcel “Marco” Van Basten, olandese e lanciere di nascita rossonero nel cuore, giocava la sua ultima partita nella triste finale di Monaco contro l’Olympic Marsiglia, persa dai rossoneri.
Quella sera faticava persino a correre.
Volle a tutti i costi giocare, per poi rendersi conto che non ce la faceva proprio: seguirà un’altra operazione, l’ennesima della sua carriera.
Sarà il colpo di grazia.
Prova a riaggregarsi ai compagni dopo quasi due anni di interminabile calvario, ma dopo pochi giorni e qualche allenamento, il 17 agosto 1995, convoca una conferenza stampa e, tra lo stupore generale, sentenzia:
“La notizia è breve. Semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore”.
Silenzio tombale in sala, sguardi persi.
Un brivido percorre la schiena di tutti i giornalisti presenti e di tutti i tifosi davanti alla tv.
Stava lasciando.
Stava lasciando davvero.
Il suo ultimo saluto allo stadio San Siro, vestito con jeans, giacca di renna e camicia rosa, fu la sentenza definitiva.
Il favoloso “Cigno di Utrecht” non avrebbe mai più riaperto le sue ali.
Persino Fabio Capello, non proprio uno dalle facili emozioni, non riuscì a trattenere le lacrime in panchina durante il suo giro di campo.
Ogni volta che scrivo di Van Basten, mi piace sempre ricordare la frase del meraviglioso Carmelo Bene, qualche tempo dopo l’addio dell’attaccante olandese:
“Il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora, mai si estinguerà.”
Mai.