“Fermi Andreas Brehme e fermi la Germania!”. Una frase – quella dell’olandese Ruud Gullit, protagonista di molte sfide tra olandesi e tedeschi in nazionale – che destò scalpore. Come: “basta fermare un difensore per arrestare la così forte armata tedesca?” Sembrava più una provocazione, certo, quella dell’asso oranje, però non molto distante dalla realtà di quegli anni.
Perché Andreas Brehme è stato a cavallo tra fine anni ottante e inizi anni novanta uno dei più forti nel suo ruolo. O “ruoli”, verrebbe da dire. Terzino destro, sinistro, poi addirittura centrocampista: ovunque lo mettevi, spostava gli equilibri.
Sì, perché nonostante nel Bayern giocasse terzino destro e nonostante fosse uno dei più forti esterni bassi di quegli anni, nel 1986, ai Mondiali messicani, il C.T. Franz Beckenbauer, un po’ per necessità e un po’ per il “traffico” sulle fasce (c’erano anche Briegel e Berthold, due vecchie conoscenze del nostro calcio), lo utilizzerà da mediano.
Lui non fa una piega, tirando fuori dal cilindro un torneo di alto livello, contornato dal gol sul punizione in semifinale contro la Francia di Michel Platini. Perderà poi la finale contro l’Argentina di Maradona, ma avrà modo di rifarsi…
Due anni dopo, insieme al compagno Lothar Matthaus, viene acquistato dall’Inter “per pochi spiccioli”, come ama ricordare Trapattoni: e lì scriverà la storia.
Mister Trap lo sposta a sinistra, ma ancora una volta le performance del fluidificante teutonico non cambiano, anzi: sarà uno dei protagonisti assoluti della strabiliante cavalcata scudetto nerazzurra 1988-89.
E’ però ai Mondiali di Italia 1990 che tocca l’apice: perché lì sarà l’uomo in più, quello decisivo, uno dei migliori in assoluto.
Prima segna all’Olanda agli ottavi, poi propizia la rete che sblocca il risultato con l’Inghilterra in semifinale, infine, nell’atto decisivo contro l’Argentina, quattro anni dopo la finale persa, realizza la rete su rigore che regala il terzo Mondiale alla Germania e a lui il terzo posto nella classifica del Pallone d’Oro.
La Germania intera è ai suoi piedi.
Dopo la grande e indimenticabile avventura italiana, torna in patria al Kaiserslautern, nel club che l’aveva lanciato da ragazzino. Purtroppo qui, nonostante la vittoria della Coppa di Germania nel 1995-1996, retrocede tristemente.
Ma un vincente come lui non può mai lasciare da retrocesso.
Decide di rimanere – gesto non scontato per uno che era già nella leggenda – e nella stagione successiva, grazie anche alla sua esperienza, il Kaiserslautern torna in Bundesliga. Già così lascerebbe da “vincitore”.
Lui però non si accontenta e nel 1997-1998, anche se più psicologicamente che “tecnicamente” (oramai trentasettenne, saranno poche le presenze in campo), aiuta il Kaiserslautern a compiere un’impresa storica: la vittoria del Meisterchale da neopromossa, unico club nella storia del calcio tedesco a riuscirci.
E in un’impresa così non poteva che esserci anche la sua firma. La firma di Andreas Brehme, uno dei jolly più forti, decisivi e vincenti di quei romantici anni calcistici.