Robert Enke: la paura di non poter essere se stessi

La triste storia dell'estremo difensore tedesco, una delle tante vittime della depressione

Robert Enke


Una carriera di buon livello, in squadre come Borussia Moenchengaldbach, Benfica, Barcellona e Hannover, oltre alle 8 presenze nella nazionale maggiore tedesca.

Nazionale che gli aveva da poco affidato la porta per i mondiali del 2010, dopo l’addio al calcio di Jens Lehmann.

Ma essere calciatori di alto livello non coincide con l’essere robot, come tutti vogliono farci credere. Sono esseri umani, con le proprie debolezze, le proprie paure, le proprie ansie.

Robert Enke è sempre stato un ragazzo riservato, molto sensibile a detta di chi lo conosceva sin dall’adolescenza. E la vita privata non lo ha di certo aiutato, mettendolo davanti a degli eventi terribili: sua figlia di due anni, Lara, è morta per un’insufficienza cardiaca.

Lui e la moglie hanno adottato un’altra bambina, Leila, ma la depressione – con cui conviveva ormai da anni senza esternarlo a nessuno se non ai suoi cari (e al padre, psicoterapeuta) – ha trovato subito un altro obiettivo su cui virare nella mente del portiere tedesco: temeva che scoprissero la sua depressione e aveva paura di perdere la custodia della figlia.

Ovviamente era una fantasia di autodistruzione.

In una società dove non c’è spazio per le persone estremamente sensibili, Enke ha iniziato sempre più a vacillare, fino al tragico epilogo.

Nella lettera d’addio trovata dalla polizia, chiedeva scusa ai medici e ai familiari che lo avevano seguito. Chiedeva scusa per avergli nascosto i pensieri che lo tormentavano, per non essere stato in grado di riemergere dalle sabbie mobili di quell’infame malattia depressiva.

Quel giorno, uscì di casa dicendo alla moglie che sarebbe andato ad allenarsi: guidò per otto ore, fino ad arrivare a un passaggio a livello. Lì si fermò, scese dalla macchina, poi camminò per cinquecento metri sotto la pioggia battente e buttò sotto un treno la sua anima tormentata.

Sarebbe troppo sperare che questa malattia venga capita dalle persone tutto d’un tratto. Ma la speranza è che, pian piano, la maggior parte di noi riesca a capire, a comprendere ciò che chi sta male prova dentro ma cerca di nascondere.

Per la paura di essere diversi, di non essere all’altezza in un mondo sempre più cattivo, crudo e vanesio.

Per la paura di non poter essere se stessi.

Luigi Potacqui
Ho creato Romanzo Calcistico. Ho scritto per Sonzogno "La magia del numero 10", perché il 10 è davvero un numero magico. Poi, non contento, ho scritto “Settimo Cielo”, il romanzo dei numeri 7. Perché nel vedere giocare Garrincha, Meroni o George Best, per arrivare fino ai giorni nostri con CR7, non puoi che sentirti in paradiso.
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