Forse è proprio per quel rigore che Roberto Baggio è ancora così amato dalla gente
“Più buia è la notte, più vicina è l’alba”.
Cesare Cremonini nello scorso novembre, ha intervistato Roberto Baggio per Vanity Fair e questa frase, utilizzata dal cantautore bolognese e poi dalla rivista come titolo dell’intera chiacchierata, mi aveva colpito. Dritta al cuore. Era perfetta per descrivere il tutto.
Il “tutto” che intendo è racchiuso in quel rigore calciato negli States in quella afosa e indimenticabile estate 1994, un rigore diventato storia…
17 luglio 1994, Stadio Rose Bowl di Pasadena, California.
Siamo a undici metri dalla realizzazione del sogno: la vittoria in una finale di Coppa del Mondo contro il Brasile, roba che ogni bambino che abbia mai giocato con un pallone ha immaginato almeno una volta nella vita.
“Roberto”, come lo chiama affettuosamente il mitico Bruno Pizzul, voce del calcio italiano e di un’intera nazione, sistema la sfera sul dischetto del rigore. Poi inizia a camminare all’indietro, con gli occhi che viaggiano veloci tra palla, arbitro e portiere.
Alle sue spalle, all’altezza della trequarti, il resto della squadra osserva con il fiato sospeso il numero 10 brillare sulla sua schiena.
“Per tutta la vita ho sognato di giocare una finale mondiale contro il Brasile, poi quando ti capita per davvero, l’arbitro fischia la fine e sembra di non averla nemmeno giocata”. Roberto Baggio – dal Biopic “Il Divin Codino”
Baggio, che ha disputato una strepitosa seconda parte di campionato, trascinando gli azzurri all’attesissimo atto finale, è il quinto e ultimo rigorista, quello decisivo.
Se segna si va avanti, se sbaglia il Brasile conquista automaticamente il quarto titolo mondiale.
“È il nostro numero 10”, “il fantasista”: sono un po’ i pensieri sconnessi e nevrotici della maggior parte degli italiani in quel momento lungo un’eternità.
Uno che i rigori li ha sempre tirati, che ha sempre avuto il coraggio di farlo, il campione giusto al momento giusto.
Poi l’arbitro fischia
Baggio entra in area accompagnato dagli sguardi di tutti: 94mila spettatori presenti allo stadio, quasi sessanta milioni di italiani incollati ai televisori e due miliardi collegati in tutto il pianeta non gli staccano gli occhi di dosso.
Prende la rincorsa, mentre Taffarel, in porta, fa un balzo in avanti cercando di indovinare la traiettoria. Baggio impatta il pallone con il destro… Alto, ben oltre la traversa.
È finita: l’Italia ha perso, il Brasile ha vinto.
Roberto resta lì, incredulo, immobile, con le mani sui fianchi e le lacrime agli occhi, sue e di riflesso di milioni di italiani che grazie a lui hanno sognato ad occhi aperti quell’estate.
“Una ferita che non si chiuderà mai” dirà a distanza di anni.
Comincia così, da quella che sarebbe potuta essere la fine, la storia di uno dei numeri 10 più amati, forse il più umano tra gli dèi del calcio.
Colui che ha combattuto a colpi di genio i rovesci della sorte e ha dimostrato che proprio la fine è, invece, sempre l’inizio di una nuova storia.