Gaetano Scirea, un gentiluomo prestato al calcio

Riviviamo la carriera di un pilastro del calcio italiano

Io e Achille Bortolotti – allora presidente dell’Atalanta – eravamo molto amici. Quando abbiamo concluso la trattativa gli chiesi di mandarmi a Torino il giocatore per conoscerlo meglio e stipulare il contratto. Bortolotti mi rispose di non aver mai accompagnato nessun giocatore alle altre società, ma per Gaetano avrebbe fatto un’eccezione. Voleva presentarmelo lui di persona: a detta sua, mi avrebbe stupito per le sue qualità umane e poi calcistiche” dirà Giampiero Boniperti.

Come dargli torto.

Quel ragazzo di appena vent’anni, chiamato sotto l’ombra della Mole per sostituire il libero Sandro Salvadore, infatti, presto avrebbe rubato il cuore a tutto il popolo bianconero (Boniperti compreso).

Con umiltà, professionalità e quella serenità che – abbinata a eleganza e stile– sarebbe sempre stata la sua forza.

In campo, nella vita di tutti i giorni.

I primi passi

Cresce nel settore giovanile dell’Atalanta – già allora riconosciuto come fucina di grandi talenti – dopo aver giocato sino a quattordici anni in una squadra di calcio a 7 del quartiere di Cinisello Balsamo, chiamata “Serenissima San Pio X”. Alla corte dei bergamaschi, nonostante a 7 agisse addirittura come punta, viene impiegato come centrocampista: prima esterno, poi centrale.

Visione di gioco fuori dal comune, e vizio del gol. Due caratteristiche, che Gaetano mette subito in mostra e che si porterà dietro per tutta la carriera.

A segnare profondamente il suo percorso nei professionisti, però, sarà il tecnico Guido Capello. Il primo, seguito da un giovane Ilario Castagner, a capirne le prospettive in un nuovo ruolo.

Il libero.

Evoluzione e ascesa

Per chi non ne avesse chiari compiti e posizionamento – sintetizzando – il libero era un elemento della retroguardia difensiva che si staccava dai compagni di reparto per intervenire in seconda battuta, offrendo copertura, e proponendosi nella prima impostazione.

Scirea ne rivoluziona completamente il ruolo.

Sembrava di veder giocare un calciatore di oggi nelle vesti di uno degli anni 80. Gaetano si proponeva sempre, facendosi servire e spingendosi in avanti per andare a segnare.

Il tutto, allo stesso tempo, senza sbagliare una chiusura difensiva quando chiamato in causa.

Quello che ammiravo e che avrei voluto rubargli era quella padronanza, quell’eleganza. Riusciva a toglier palla all’avversario senza far mai fallo e riusciva anche a segnare dei gol inserendosi sempre al momento giusto, cosa che io non riuscivo a fare” dirà Franco Baresi (ritenuto probabilmente insieme a Scirea e Maldini il difensore italiano più forte di sempre).

La Vecchia Signora

Dopo due stagioni tra i grandi con l’Atalanta – l’ultima da protagonista in Serie B – nel 1974 è la Juve a farsi avanti. Gaetano, dopo qualche mese complicato, ne diventa subito leader tecnico.

“Era il mio fuoriclasse” avrebbe detto più avanti Giampiero Boniperti con un filo di emozione.

Mai una parola fuori posto, zero espulsioni in 16 anni di calcio giocato (una notizia all’epoca per chi si trovava in difesa) e quella nobiltà d’animo indescrivibile, impossibile da cancellare anche a distanza di anni.

Leggendario il rimprovero ai compagni in un Fiorentina – Juventus dopo l’ennesimo fallo commesso: “Le vostre mogli vi stanno guardando!”.

Come altrettanto iconico, era il suo stile fuori dal campo: “Venne a trovarmi Cesare Romiti, allora presidente della Fiat, e mi raccontò dell’altruismo di Gaetano che quando andava da lui per rappresentare le richieste della squadra non chiedeva nulla per sé ma sosteneva gli interessi dei compagni. Una sola volta accettò un regalo. Tornò a casa a bordo di un’orribile 131 color rosa. Non gli interessavano le Ferrari. Era un uomo essenziale. Finsi di arrabbiarmi: ma non potevi prenderla almeno di un colore diverso?» racconterà la moglie Mariella in un’intervista.

Insomma, Scirea non era come gli altri.

Non lo è mai stato.

Vittorie

Con la Vecchia Signora vince tutto quello che un calciatore può vincere a livello di club: 7 Scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa UEFA, una Coppa delle Coppe, una Coppa dei Campioni (macchiata dalle 39 vittime dell’Heysel) e una Coppa Intercontinentale battendo in finale l’Argentinos Juniors ai calci di rigore.

Sempre con il numero 6 sulle spalle, e quella fascia di capitano che dal 1983 diventa sua. Piccola chicca: a dimostrazione delle sue qualità tecniche fuori dal normale, nell’annata 1975/76 indossa anche la maglia numero 10.

Sì, quelle stesse qualità che lo portano nell’82 a una cavalcata palla al piede contro la Germania in una finale di Coppa del Mondo, dopo essersi conquistato il pallone a metà campo. Tacco per Bergomi nell’area di rigore avversaria, poi, assist perfetto per Tardelli che insacca siglando il 2-0. In quell’iconico Mondiale che vedrà trionfare gli Azzurri.

Un libero quando difende, un centrocampista quando imposta, una punta quando si spinge in attacco” scriverà La Gazzetta dello Sport sul suo conto.

Chi vive nel cuore di chi resta non muore mai

A 35 anni dice addio al calcio giocato, ha ancora tutta la vita davanti e due meravigliose famiglie a cui dedicarsi. Riccardo (il figlio) e Mariella a casa, la sua amata Juve in campo che gli aveva offerto il ruolo di vice allenatore di Dino Zoff.

Il destino, però, avrebbe deciso di portarselo via in quel tremendo incidente a Babsk avvenuto il 3 settembre 1989.

Difficile trovare le parole, come difficile, spesso, è accettare ciò che la vita ci mette davanti.

Probabilmente, anche il cielo, aveva bisogno di un gentiluomo come lui al suo fianco.

 

 

 

 

 

Pietro Caneva
Mi sono occupato dell'intera stesura di "Domenica alle 15. Il calcio al tempo dei social" di Luca Diddi (ex Match Analyst dell'Hellas Verona e CEO di Calciatoriignoranti)

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