Difficile inquadrare un’opera d’arte, ingabbiarla nei confini rappresentati dalle etichette. Dovere dei critici direte voi, ma – per molti appassionati – spesso questa tendenza sfocia nel superfluo, a tratti, nell’irriverenza.
Stesso discorso, si può dire valesse per un giocatore che per anni portò sulle spalle il numero 14 del Real Madrid. Spesso criticato per il suo essere fuori dalle righe, per l’altalena di prestazioni, e per quel suo anarchismo tattico in campo.
Capello lungo biondo, mancino visionario e personalità. Tanta, fin troppa.
Uno con il suo talento poteva giocare in qualunque posizione dal centrocampo in su, trovando imbucate improvvise e assist al limite del fantascientifico.
Impossibile da inquadrare, giudicare o anche solo descrivere in alcune sue giocate.
Il suo nome? José Maria Gutiérrez Hernández.
In campo, semplicemente Guti.
La Casa Blanca
“Quando sono diventato titolare nel Real Madrid, Guti non mi ha parlato per tre mesi perché andava in panchina. Poi abbiamo iniziato a giocare insieme e avevamo un’intesa incredibile. Ci trovavamo anche senza guardarci. È un fenomeno, il più forte con cui abbia mai giocato. Mi ha fatto una grandissima impressione“.
Queste le parole al miele di Wesley Sneijder. Un’investitura, ben lontana dalla percezione della stampa nei suoi confronti durante il suo lungo percorso (durato 17 anni) con la camiseta blanca.
Dato più volte per partente, infatti, il tuttocampista spagnolo finiva sempre a inizio anno per essere messo alla porta dalle voci di mercato. Quest’ultime, rigorosamente smentite poi dalla dirigenza madrilena, e da qualunque tecnico l’avesse in rosa.
A preparazione conclusa, infatti, ogni allenatore esprimeva lo stesso pensiero: Guti non si tocca, rimane a Madrid.
Percorso
Cresciuto nel settore giovanile delle Merengue, mette subito in mostra il suo talento cristallino.
È Jorge Valdano a farlo esordire nel 1995 contro il Siviglia dopo 9 anni di giovanili: da quel momento, Guti sarebbe entrato in pianta stabile tra i grandi.
I trofei – nonostante l’annata infelice nella quale esordì che vide addirittura arrivare il Real sesto in Liga – non si sarebbero fatti attendere.
L’anno seguente, infatti, il Real vince il campionato sotto la guida Capello e, 12 mesi più tardi, arriva anche la tanto ambita Coppa dei Campioni.
La prima, delle tre che Guti metterà in bacheca con i Blancos.
Certo, non è ancora un protagonista, ma allenarsi con fuoriclasse come Raùl, Redondo e Roberto Carlos (solo per citarne alcuni) lo aiutano nei mesi a maturare, e a forgiare il DNA del club più titolato al mondo.
Non a caso, a inizio anni 2000, Guti sboccia definitivamente.
Posizione in campo
Agisce inizialmente come seconda punta, fornendo grandi prestazioni e – nell’annata 2001/2002- anche reti decisive per la conquista della Champions League (su tutte quella del 2-0 nel ritorno dei quarti di finale contro il Bayern Monaco).
Anche sulla trequarti non lesina partita di spessore, non a caso, le annate seguenti lo vedono sempre più arretrare di posizione nello scacchiere dei Galacticos.
Complice, sicuramente, gli acquisti di campioni come Ronaldo, van Nistelrooy e Wesley Sneijder (oltre agli scarsi numeri realizzativi dello spagnolo).
È un jolly, un giocatore che, nonostante le critiche per quell’atteggiamento apparentemente menefreghista, quando concentrato può far la differenza in qualunque posizione del rettangolo verde.
A partire dal 2006, Fabio Capello lo schiera addirittura mediano.
Poesia e magie
Vederlo sulla linea dei centrocampisti a dettare i tempi di gioco, è un piacere per gli occhi. Tecnica e personalità, abbinate a una propensione per il rapido recupero del pallone, lo rendono finalmente un titolare inamovibile.
A coronare la sua crescita, in assenza di Raùl, indossa anche più volte la fascia di capitano.
Imbucate in verticale e lanci millimetrici diventano nei mesi all’ordine del giorno, come quegli slalom in mezzo al campo conditi da filtranti a tagliare le linee avversarie. Senza dimenticare, ovviamente, quei suoi geniali colpi di tacco capaci di diventare iconici.
“El tacon de Dios” scriverà Marca nel 2010 dopo il suo emblematico passaggio a Benzema che valse il tap-in vincente del francese contro il Deportivo La Coruna.
Una giocata, che nell’immaginario collettivo, ancor oggi rimane impressa nelle menti di milioni di appassionati.
Il 25 luglio 2010 dirà addio al Real Madrid dopo 17 anni, per abbracciare il Beşiktaş.“Vado via con la certezza che la famiglia del Real mi ama, questo è molto importante” dirà nella sua ultima conferenza stampa con i Blancos.
Un messaggio di amore infinito per una tifoseria.
Ricambiato, da un intero popolo calcistico che negli anni ha saputo apprezzarne le gesta.