Romanzando con Luca Arata

Un'intervista a cuore aperto con l'esterno della Nazionale Calcio Amputati e del Vicenza Calcio Amputati

Parlaci di te: chi è Luca Arata?

“Sono un ragazzo di 22 anni che vive a Carpignano Sesia in provincia di Novara. La mia storia inizia il 5 giugno 2015, sino a quel giorno la mia vita era quella di qualunque altro ragazzo di 14 anni: scuola, amici e calcio, tanto calcio. Quel giorno, però, uscendo in motorino per incontrare un mio amico, una macchina mi investe vicino a casa. Mio papà assiste alla scena e con mio fratello chiama i soccorsi, da quel momento la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Lo scenario è drammatico: nell’incidente perdo subito mezza gamba sotto il ginocchio, mi fratturo il femore della gamba destra, rimedio una frattura scomposta al braccio sinistro, fratture a naso, zigomo e mascella, oltre alla rottura di due vertebre. L’intervento tempestivo del mio amico e di un ex pompiere di nome Elvis, oltre al quello dell’elisoccorso, mi salvano la vita. Seguono poi 11 giorni di coma, 24 operazioni (l’ultima il 12 dicembre dell’anno scorso) e tanto, tanto dolore. Lo stesso dolore, che mi sta permettendo di apprezzare ogni singolo momento della mia vita”.

Quanto è sviluppato in Italia il movimento Calcio Amputati rispetto al resto del mondo, e quanto è stato difficile approcciarti a questo sport?

“Scopro questo movimento grazie al coach della mia palestra che, attraverso un casuale incontro con un suo amico di infanzia nella mia stessa situazione, viene a conoscenza dell’esistenza a Genova di una squadra di Calcio Amputati che gioca attraverso l’ausilio delle stampelle. Mi riferisce subito questa possibilità, e al solo pensiero ancor oggi mi viene la pelle d’oca. In Italia le squadre sono solo quattro: il Vicenza (che è il club per il quale gioco da quest’anno e che ringrazio per serietà e competenza), lo Sporting, la Roma e la Levante. All’inizio è stata dura, con i miei genitori che in un primo momento erano impauriti e contrari, ma cambiarono idea una volta capito che quello era il mio sogno. Dopo esser andato a provare a Genova, non sono più riuscito a staccarmi da questo meraviglioso sport. Da quel luglio del 2019, sino a oggi. Provando sempre le stesse incredibili emozioni, con sacrifici e tanto dispendio fisico. Ma non posso farne a meno: quando mi allaccio la scarpa e entro in campo, dimentico di aver solo una gamba”.

In quanti si gioca, e da quanti calciatori è composta la rosa?

“Giochiamo a 7. Nella rosa del Vicenza siamo 14 giocatori, ma ci sono squadre che faticano ad arrivare al numero necessario e sono costrette a chiedere dei prestiti, chiamando anche tanti giocatori stranieri. La Roma, seppur nata da poco, invece dispone di un buon numero di giocatori. Spero con tutto il cuore che il movimento possa ampliarsi e raggiungere il livello delle altre nazioni. In Inghilterra per esempio club come Everton, Arsenal e Manchester City hanno una propria una squadra di Calcio Amputati. Ogni partita dura 50 minuti (due tempi da 25) e lo spettacolo non manca, purtroppo in Italia si pensa che quando vi è di mezzo la disabilità non ci sia spettacolo. Ma non è così”.

Come sono strutturati gli allenamenti?

“A Vicenza facciamo un paio di allenamenti al mese in gruppo. Ci vediamo il sabato mattina, pranziamo insieme, e al pomeriggio è fissata un’amichevole. Personalmente mi alleno individualmente martedì e giovedì in palestra, mentre lunedì mercoledì e sabato sul campo. Il lavoro in palestra è la base, importante è rafforzare i muscoli utilizzati poi sul campo: dai tricipiti ai dorsali. Nonostante le grandi difficoltà fisiche, io vivo per quelle emozioni, per i risultati che riesco a ottenere sul rettangolo verde. Questo lo devo soprattutto alla mia famiglia. A partire da mio nonno, che oggi non c’è più, ma le cui parole mi danno la forza ogni giorno per allenarmi e lottare”.

Quanto è importante il lavoro in palestra e soprattutto le esercitazioni coordinative per riuscire a riprodurre gli stessi gesti tecnici e atletici, con il solo ausilio delle stampelle?

“Allenamento e alimentazione sono vitali, ma la testa è tutto. Io gioco a calcetto con ragazzi normodotati e sentire il loro appoggio e i loro complimenti mi riempie il cuore di orgoglio e gioia. In molti addirittura mi dicono di aver ritrovato la voglia di giocare a calcio, guardandomi, comprendendo la mia passione, il mio spirito. Queste cose ti ripagano per tutti gli sforzi. Il mio obiettivo non è sfondare per diventare famoso, non riuscirei mai a mettere me stesso al centro dell’attenzione, io voglio farcela per tutti i ragazzi con cui ho condiviso stanze e dolori, per portare la mia storia e raccontarla. La mia, e di quei ragazzi che sono in ospedale che sognano e non hanno mai smesso di farlo. Sono un grandissimo tifoso del Torino e sogno con tutto il mio cuore che un giorno il Torino Calcio Amputati nasca, per andare anche io a segnare sotto la Maratona. Prego il signore ogni notte per far sì che questo sogno possa realizzarsi”.

Quante partite si giocano generalmente in un anno, e come vivi le gare e soprattutto il post-partita a livello fisico e mentale? 

Le partite in Italia sono poche essendoci solo quattro squadre, tutte si affrontano andata e ritorno. Con il tempo sono riuscito a trovare la serenità di entrare in campo con l’idea di divertirmi e di stare bene con me stesso. Alla sera, terminata la partita, non mancano gli acciacchi, ma sul campo la passione è molto più forte di qualunque tipo di dolore. Quando mi allaccio la scarpa e leggo dietro la maglia il numero 5 seguito da Arata, le emozioni non si trattengono: sono indescrivibili. 5 come il 5 giugno (la data di quell’incidente) e 5 come l’inizio della targa del mio motorino. È un numero che porterò sempre con me, quel numero per me è vita. Sono emozioni da pelle d’oca. Negli occhi dei miei genitori e di mio fratello non ci sono più quelle lacrime di paura, ma quelle di orgoglio”.

Ricordi la tua prima partita dopo l’incidente?

“La prima partita l’ho giocata a 1 mese da quando ho iniziato a giocare sulle stampelle. La gara era Lecce Levante, ricordo di non esser partito titolare perché “arrancavo” ancora sulle stampelle, e ancora oggi so di dover migliorare tanto, essendo consapevole del fatto che ci siano giocatori più forti di me. I miei compagni del Vicenza e della Nazionale mi stimolano ogni giorno ad andare avanti. Tornando alla partita, quando sono entrato, ho sfiorato più volte il gol e siamo riusciti a vincere 2-0 raggiungendo il terzo posto (era una finale per il terzo e quarto posto). Ero davvero emozionato e quel giorno ho realizzato che avrei iniziato un percorso che mi avrebbe svoltato la vita”.

Da quanti anni pratichi questo sport e quanto pensi di esser migliorato nel tuo percorso?

“Dal luglio del 2019 non mi sono mai fermato e da ottobre del 2019 sono all’interno della Nazionale. Sono sicuro di esser migliorato nel mio percorso, perché sono un ragazzo umile che ha tanta voglia di migliorarsi ogni singolo giorno. Voglio andare avanti, ogni anno mi prefisso degli obiettivi”.

A quali competizioni hai partecipato con la maglia della Nazionale, e quali emozioni hai provato?

“Ho giocato il Sei Nazioni (competizione che vede 6 Nazionali europee sfidarsi una volta all’anno solitamente in Polonia) ed è stata la mia prima esperienza a livello di Nazionale, un’emozione indescrivibile. Sono stato anche molto fiero del fatto che il mister mi abbia fatto giocare nonostante fossi l’ultimo entrato in Nazionale. Ho sicuramente tanto lavorare per ottenere un posto da titolare. Dovevo giocare gli Europei, ma prima di partire per il ritiro sono risultato positivo al Covid. Quella è stata una mazzata, probabilmente il secondo momento più brutto della mia vita dopo l’incidente: volevo mollare tutto, però sono riuscito a trasformare questo dolore in forza. La massima competizione che ho raggiunto con la Nazionale è il Mondiale, il ritiro è durato 15 giorni, e non riuscivo a realizzare questo sogno. Una volta sull’aereo diretto a Istanbul ho compreso davvero il tutto, e posso dire che sia stato molto triste il fatto che dell’Italia Calcio Amputati non abbia parlato nessuno. Anche perché siamo arrivati davanti a Nazionali composte da giocatori il cui unico lavoro è il calcio, e abbiamo raggiunto i quarti di finale per la prima volta nella storia. Le emozioni sono state indescrivibili, sapevo di scendere a lottare per il popolo italiano, per rappresentare la mia Nazione. Non ci sono parole per descrivere quanto ho provato. La finale è stata Turchia-Angola vinta dalla Turchia nello stadio del Galatasaray con ben 35000 spettatori. Vi erano maxischermi e spot pubblicitari ovunque, mentre qui in Italia non se ne parla per niente, forse spaventa. Ancora oggi io lotto per questo”.

Come vi disponete tatticamente a 7?

“Ci sono squadre che giocano con 3 giocatori dietro e 3 davanti, altre 2 dietro 3 centrocampo e 1 davanti. Ci sono più moduli, a me personalmente piace giocare sulla fascia. Sono abbastanza veloce, ho fiato, e riesco a dare una mano dietro e ripartire veloce per andare a giocare in avanti. Prima dell’incidente ero un mediano basso, di quelli che lottano e amano i campi pieni di fango per far la lotta. In questo movimento calcistico ho dovuto però imparare anche a saltare l’uomo, e a migliorare molto tecnicamente. Quest’anno, dopo aver giocato due anni nella Levante, ho deciso di puntare al Vicenza che secondo me in Italia è il massimo esponente per organizzazione e serietà”.

Il 10 giugno ci sarà l’ultima partita della stagione, cosa significherebbe per te vincere lo scudetto e giocare la Champions League (in termini anche di visibilità all’estero e di opportunità)?

“Il 10 giugno se vinciamo con la Roma, vinciamo il campionato. Per me vincere lo scudetto sarebbe raccogliere il frutto dei sacrifici che ogni giorno sto facendo. Non me lo voglio immaginare, voglio viverlo. Voglio indossare quella medaglia e arrivare davanti alla tomba di mio nonno e dirgli di avercela fatta. Scudetto per me e la mia famiglia vorrebbe dire passare da quel letto di ospedale nel quale ero in coma, dalle lacrime di gioia di mio fratello dopo il mio risveglio, al raggiungimento di qualcosa di apparentemente impossibile. Ci tengo a ringraziare con il cuore anche i supporters, un gruppo di ragazzi che non mi hanno mai abbandonato, che verrebbero ovunque per sostenermi: da mio padre, sino alla mia migliore amica. Troppe volte nel calcio si dimentica quanto siano belli i tifosi, i tifosi sono il calcio ed è giusto parlarne. Questo scudetto lo voglio vincere anche per loro, farò di tutto per realizzare questo sogno. Giocare la Champions League significherebbe raggiungere un altro obiettivo, un traguardo sognato da ogni bambino”.

In quali nazioni il Calcio Amputati ha maggior visibilità e permette agli atleti di farne a tutti gli effetti un lavoro?

“In Italia il movimento è veramente misero, all’estero in nazioni come Turchia, Inghilterra, Polonia invece è un lavoro a tutti gli effetti. Sul territorio polacco, il movimento è rappresentato da Lewandoski, e addirittura un giocatore di calcio amputati della Polonia è riuscito a vincere il premio Puskas della FIFA, arrivando in finale contro Richarlison. Anche in Angola è seguitissimo, come in Francia e Spagna. Ho ricevuto proposte da una squadra polacca e una spagnola per andare lì a giocare, ma non voglio scendere in campo per il denaro e per farne un lavoro all’estero. Vorrei vedere crescere il movimento qui in Italia, combatto ogni giorno per raggiungere questo obiettivo”.

E noi te lo auguriamo con tutto il cuore, Luca.

 

 

 

Pietro Caneva
Mi sono occupato dell'intera stesura di "Domenica alle 15. Il calcio al tempo dei social" di Luca Diddi (ex Match Analyst dell'Hellas Verona e CEO di Calciatoriignoranti)

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